
Viviamo in un tempo in cui prendersi cura degli altri è diventato, per molti, una vocazione silenziosa. Educatori, psicologi, medici, insegnanti, volontari, genitori: tutti, in modi diversi, si ritrovano a sostenere, ascoltare, accompagnare. Ma chi si prende cura di chi cura?
Il peso invisibile della cura
Le professioni d’aiuto — e più in generale, le vite dedicate agli altri — portano con sé una tensione costante: il desiderio di essere utili, di fare la differenza, di non deludere. Eppure, proprio lì, nel cuore di questa generosità, può annidarsi il rischio del logoramento. Il burnout non è solo stanchezza: è una perdita di senso, una disconnessione profonda tra ciò che si fa e ciò che si è.
Spesso, chi aiuta fatica a chiedere aiuto. Si sente in dovere di “tenere duro”, di non mostrare fragilità, di non rallentare. Ma questa resistenza, se non ascoltata, può trasformarsi in isolamento, ansia cronica, senso di inefficacia. E quando il “fare” si sovrappone all’identità, ogni inciampo diventa una ferita: “Se non riesco, allora non valgo”.
La cura come formazione permanente
La salute mentale non è un lusso, ma una responsabilità. E non riguarda solo chi vive un disagio conclamato: è un processo continuo, fatto di ascolto, prevenzione, accompagnamento. Prendersi cura di sé non è egoismo, ma condizione per poter essere davvero presenti agli altri.
Percorsi di supervisione, spazi di parola protetti, momenti di mentoring, pratiche di consapevolezza corporea — come il sonno, il movimento, l’alimentazione — sono strumenti fondamentali per sostenere chi vive una vocazione relazionale. La cura del corpo, in questo senso, non è un dettaglio: è il primo luogo in cui si iscrive la fragilità e si apprende l’ascolto.
La resilienza come arte del rialzarsi
Resilienza non significa non cadere. Significa sapersi rialzare, trasformando la crisi in cammino. È un processo attivo, che nasce dalla capacità di dare senso a ciò che si vive. Come scriveva Viktor Frankl: “Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come”.
Ritrovare il senso — dentro la fatica, la delusione, il fallimento — è il primo passo verso la guarigione. E questo senso non si insegna: si scopre, si coltiva, si custodisce. A volte basta una relazione autentica, un gesto di gentilezza, una parola che ci ricorda chi siamo.
Conclusione
In un mondo che corre, fermarsi per ascoltare sé stessi è un atto rivoluzionario. La cura dell’umano — nelle sue dimensioni psicologiche, corporee, spirituali — è il vero fondamento di ogni vocazione. Non si tratta di essere perfetti, ma di essere presenti. Di abitare le proprie crepe, lasciandovi passare la luce.
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